Recensione: Stoner di John Edward Williams

[highlight]Stoner è un romanzo di John Edward Williams, pubblicato in lingua madre nel 1965, post mortem dell’autore, e in italiano nel 2012[/highlight]

Non inizierò esponendo in breve la trama del romanzo, Stoner.

Il suo tema è la totalità di una vita, trattarlo è come rinchiuderlo, oltre quelle lettere e pagine che solo legandosi dischiudono l’esistenza dell’uomo, di quel William mai nominato, semplicemente Stoner, nel suo quotidiano. E’ Stoner, per se stesso, per ogn’altro e per l’autore stesso, l’altro Williams, con la ‘s’, la cui disarmante complessità d’animo mescola linearità ed un linguaggio sempre chiaro, solo talvolta austero e ricco, in un paradosso emozionale dove la totale mancanza d’attaccamento alla vita del protagonista risveglia in chi legge la sopita frustrazione del desiderio della vita, la stessa che si vede svogliatamente scivolare via dalle mani di Stoner e che sentiamo riflettersi implacabile nella nostra.

Non è Stoner, solamente un romanzo bellissimo capace di spezzare, è Stoner in particolare, il protagonista di questo romanzo bellissimo capace di innamorare, la cui vita, il tutto della sua esistenza vi si ritrovano rinchiuse. Libro dallo strano destino come quello dell’uomo che lo anima, rispolverato dopo decenni ed improvvisamente scopertosi capolavoro, a pieno titolo, accenniamolo forte, (figlio di una narrativa che forse non c’è più?) dove le suggestioni – emozioni, turbamenti, impressioni – non si perdono ma non si urlano, non si assumono ma si vivono, dove la passività non è asservimento al mezzo ma quella raccontata dal mezzo stesso che si manifesta sotto la forma di uno stato emotivo interno e inconsapevolmente indotto diviene assunzione attiva e condivisione. Perché ad un certo punto vorremo essere li, a fianco di quello Stoner, mai troppo uomo e fin troppo etichetta, e dirgli di fare qualcosa, qualcosa qualsiasi cosa. Il suo potere è qui.

Da quel lato la vita di un uomo che ha deciso di vivere lasciando che la vita viva per se, da questo lato noi uomini consapevoli di vivere le nostre, nella compiutezza di energie mai risparmiate e definite in una precisa concretezza.

Eppure. Cosa vogliamo farne di noi?

E’ questa la domanda micidiale che Stoner pone a se stesso, ed alla quale da LA risposta che noi, figli dell’ utilitarismo e della rivoluzione sociale, non potremmo mai assolutamente accettare. L’occidente e la sua retorica oggettualizzano l’uomo, il suo essere ed il suo ruolo si fondono divenendo l’altro il pilastro dell’ io, il valore espresso diviene dettame, e sconforto e auto riprovazione avanzano nel caso di una disattesa buona rappresentazione della nostra scenica presenza. All’ incedere del libro gli si antepone la nostra risposta e muovendo in parallelo cerca di ricordarci passo dopo passo la sua esattezza e precisione, eppure, passo per passo, Stoner, sia personaggio che romanzo, ci trascinano con loro in un dubbio, erotico e vero, che spodesta velleità e manie ed in un’infinita dolcezza mista a rabbia e nuovamente contegno ci rassicurano sull’infondatezza delle nostre speranze.

Nella rivelata desolazione della sua vita, raccontata sul tono monocromatico di una corda tesa, vi sono momenti d’impasse psicologica, in cui il nostro intelletto è costretto a pensare se stesso e provocare una riflessione tale da diventare collante per la memoria ed argilla per l’anima.

Così come per noi nel nostro essere insieme singolo e superorganismo collettivo, l’ etopoiesi stoneriana assume i confini di un luogo, si proietta oltre il suo corpo, deforme e malridotto già da subito, ed applica la pratica della cura di se in un se collettivizzato ma di una collettività invisibile, strutturata come complesso che rinchiude anime, e non come anime che portano all’elevazione.

Stoner fa urlare, la sua lettura riempie di grida dal profondo, che non riescono ad uscire e si strozzano, si paralizzano nell’ anima e li attecchiscono. E’ un immobilismo vitale il suo che ammazza l’idea progressista, arrivista, in cui la retorica dell’ identità ha superato quella dell’ etnia, un immobilismo che paralizza perché ci lascia sprofondare in un incubo nel quale non riusciamo a correre, con le gambe appesantite ed il pavimento scivoloso.

Il miracolo dello Stoner non è interno al romanzo, il miracolo dello Stoner è il suicidio della nostra epoca, che rifiuta di osservarsi e vedendosi raccontata altrove riesce ad esprimere un giudizio che altri non è che il giudizio su se stessa.

Eppure, eppure, anche li, vi è salvezza, una breve, timida, inconfessabile salvezza.

 [quote]Lussuria e conoscenza”, disse una volta Katherine.“E’ il massimo che si può avere, giusto?”E a Stoner sembrava proprio che fosse vero e che questa fosse una delle cose che aveva imparato.[/quote]

 Lussuria e conoscenza. E’ il massimo, no?

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