Valerio Bispuri ci parla di Encerrados e di sè

[highlight]Il fotoreporter di origini romane ci racconta del reportage realizzato nelle dure carceri sudamericane, e molto altro ancora [/highlight]

I 75 scatti raccolti nel libro fotografico Encerrados, pubblicato per la prima volta in volume da Contrasto il 29 gennaio 2015, restituiscono agli occhi di chi ignora le condizioni di non vita in cui versa la stragrande maggioranza dei carcerati sudamericani.

Abbiamo chiesto a Valerio Bispuri, fotoreporter di origini romane e autore del reportage, di raccontarci del suo lavoro e anche qualcosa in più.

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Hai scelto di partire dal sistema penitenziario per raccontare il Sud America, in quanto è l’ambito che fotografa meglio una società in cui la delinquenza è una sorte che si è indotti a incontrare dentro e fuori la cella, a causa di un incubo fatto di povertà, droga e mancanza di lavoro. Viene allora da chiedersi: Encerrados in che senso? Si è rinchiusi dietro le sbarre di una cella sovraffollata o dentro le mura di un carcere che si estende lungo tutto il confine di questa terra?

Encerrados in spagnolo vuol dire rinchiusi; io ho  voluto semplicemente raccontare come vive l’essere umano rinchiuso, senza libertà, come vive il detenuto. Con il mio reportage non intendo denunciare la situazione carceraria o raccontare il sovraffollamento delle carceri; si tratta, piuttosto, di un libro antropologico che vuole svelare come si vive dentro un carcere. Nel libro ho scelto, infatti, di inserire foto che riproducono la quotidianità all’interno del carcere, i sentimenti interni ed esterni. Ci sono foto di gente che solleva i pesi, di gente che vuole riprodurre abitudini, che vive nella “normalità”, pur essendo rinchiusa.

Non credi, tuttavia, che rendere visibile l’invisibile, imprimere nella memoria collettiva una realtà aberrante, ma completamente ignorata, generi immediatamente il giudizio negativo, il disprezzo, dunque la denuncia dalla quale possono anche scaturire soluzioni positive?

La scelta delle foto e la costruzione del libro vanno al di là della denuncia, che subentra soltanto in un secondo momento. La denuncia non è l’intento principale, è  un’informazione secondaria, anche se mi rendo conto che ciò che svelo fa effetto. Eppure, non ho spinto sulle foto; ho foto anche più forti che potevo inserire nel libro, ma a me interessava di più raccontare il detenuto dentro il carcere, piuttosto che raccontare le sofferenze e le problematiche dentro un carcere. L’aspetto di denuncia di situazioni al limite dell’umano è una conseguenza, ma non  l’obiettivo del lavoro.

L’idea di una Paese in cui non si intravedono possibilità di riscatto, si scontra con l’anomala esperienza che hai vissuto nel Padiglione 5 del carcere di Mendoza, in Argentina, il buco sotterraneo più pericoloso, quello in cui sono rinchiusi uomini che fanno paura ad altri uomini, così tanto da essere isolati, abbandonati da tutti. L’inaspettata ospitalità e la volontà dei detenuti di rendere nota la loro condizione al limite dell’umano, ha consentito la chiusura del Padiglione. Credi che la fotografia possegga un potere tale da far cambiare le cose?

Quello della chiusura del Padiglione 5 è un episodio che mi ha dato molta soddisfazione, perché testimonia che il lavoro di giornalismo e di indagine può anche riuscire a cambiare le cose.

Per te fotografare significa bilanciare quello che si vede con quello che si sente; questo implica la presenza di un filtro fortemente soggettivo. Quali sono state le sensazioni che ti hanno suscitato quegli ambienti angusti fatti di sbarre, mura e buio?

Credo che la fotografia sia un binomio tra quello che uno sente interiormente, tra la propria emozione e la realtà. Questo bilancio tra le due cose consente di produrre l’immagine fotografica, ma quello che senti in quel momento non ha niente di razionale, è impossibile esprimerlo con le parole. Si tratta di un qualcosa che provi in quel preciso istante e che cerchi di trasmettere scattando la fotografia. Dentro il carcere, mentre fotografi, sei preso da mille imput, sei frastornato. Soltanto dopo, una volta ultimato il lavoro, quando sei solo con te stesso, emergono le sensazioni più forti; allora appare il dolore, appare la coscienza.

Hai ammesso più volte il tuo bisogno costante di viaggiare per fuggire dalle responsabilità, così come l’amore per il Sud America. Eppure, intraprendendo un viaggio durato dieci anni, inizialmente alla ricerca di una libertà personale, ti sei imbattuto in una realtà che di libertà ha forse sempre e solo sentito parlare e che, tuttavia, vuole reagire per sbarazzarsi dei fantasmi del passato e i disagi del presente. Credi sia questa relazione contrastante tra costrizione e voglia di libertà che accomuna te e il popolo sudamericano?

Parlavo dell’amore per il Sud America già  a vent’anni, quando avevo questa idea del fuggire da una realtà che sentivo stretta. Erano, allora, discorsi da ragazzo universitario che cerca vie di fuga. Oggi penso che il sentimento che più accomuna, in generale, il Sud America sia la rabbia, in senso positivo e negativo. Mi riferisco alla rabbia di non cedere mai, di non toccare mai il fondo, di ribellarsi alle dittature, alle situazioni reali di un Paese, ma anche alla rabbia come violenza, del voler sovrastare l’altro. È una rabbia che contiene un doppio sentimento. Personalmente, sento molto vicino il Sud America perché è una nazione che vive molto sul presente, che vive molto nella vita. In questo il Sud America si distingue dai paesi arabi, orientali in generale, tutti racchiusi in sistemi religiosi o dittatoriali. Quello sudamericano è un popolo che vive la vita, nel male e nel bene. Siccome io credo fortemente nella vita terrena e basta, nel vivere giorno per giorno, mi sento molto vicino a questa modo di intenderla. Di certo non mi sento vicino alla parte violenta del Sud America; questa non mi ci accomuna.

Oltre alla fotografia, hai esercitato la professione giornalistica per circa dieci anni lavorando per diverse testate italiane e straniere. Alla luce del fatto che hai sperimentato entrambe le forme di comunicazione, ritieni sia più efficace la parola o l’immagine per trasmettere un messaggio?

Al 101 per cento l’immagine. La parola non regge neanche minimamente il confronto; lasciamola ai romanzi e ai saggi. La vedo così. Inoltre, voglio precisare che non ho fatto prima il giornalista e poi il fotografo; la fotografia ha sempre fatto parte di me. Ho sempre lavorato anche con la fotografia da quando avevo diciotto anni, sebbene non avessi proprio deciso di fare il fotoreporter e di vivere solo di quello. Abbinavo le due cose, il giornalismo e la fotografia.

Da tue precedenti dichiarazioni si evince il legame speciale con tua sorella Laura Bispuri, regista e autrice del suo primo lungometraggio Vergine Giurata, presentato di recente in Germania, ma anche il rapporto con i tuoi genitori, due figure importanti nella tua vita. Nonostante la tua propensione all’evasione e al viaggio, pensi che le radici siano importanti? E quanto hanno contato nella tua formazione?

Si, credo siano importanti le radici. Curiosamente, sia io che mia sorella lavoriamo con l’immagine, anche se, nel suo caso, si tratta di immagine in movimento, essendo regista. Ci chiediamo spesso da dove venga questa comune radice dell’immagine, non sappiamo bene da dove derivi. In ogni caso, sicuramente la famiglia ci ha dato molto. Ci ha dato una cosa principale, molto bella, una cosa che potrebbe anche essere un po’ rischiosa, ma che, se dotata di una struttura, può funzionare: è la libertà, la libertà vera, cioè la libertà di scegliere. Basta pensare che io, proprio quando ero arrivato col giornalismo a un punto in cui guadagnavo, ho deciso di cambiare tutto, di cominciare a fare il fotoreporter e di andare a vivere in Sud America. Anche da ragazzi i miei genitori hanno sempre appoggiato le scelte di me e Laura, la qual cosa ci ha dato la possibilità di esprimere al meglio le nostre attitudini. Ho un figlio di sei anni e con lui cerco di fare la stessa cosa, cerco di garantirgli la stessa libertà di espressione, sempre nei limiti, certo, altrimenti non è più libertà, libertà di poter scegliere quello che veramente si sente.

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Con Encerrados hai trattato un tema dal forte richiamo sociale, tema che soddisfa in pieno il tuo interesse per l’indagine e la scoperta. Quali sono i progetti ai quali attualmente ti stai dedicando? Affiancano ugualmente all’indiscutibile valore artistico il non secondario valore sociale?

Il mio lavoro sul mondo lesbo andrà in mostra a Perugia a novembre, si tratta di un lavoro a cui io tengo molto perché si stacca un attimo dagli altri due lavori, sulle carceri e sul paco, che sono due lavori molto sociali, mentre questo è un lavoro più che sociale io dico intimo, cercare proprio di capire l’intimità che c’è nell’amore tra due donne, lavoro intimistico. Avevo proprio bisogno di staccare un attimo dal mondo terribile, dalle difficoltà per la droga per la violenza,e la stessa cosa voglio fare con i sordi e poi mantenendo sempre un mio lato sociale sto portando un altro lavoro, progetto del quale però per il momento posso dire solo questo.

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