Confindustria, anche i ricchi piangono

[highlight]Confindustria costretta alla spending review. Pronto un piano per ridurre i costi[/highlight]


Confindustria è la principale organizzazione rappresentativa delle imprese manifatturiere e di servizi italiani; con le sue circa 150 mila imprese, può vantare risultati e numeri che non è facile trovare nel resto d’Europa. Nonostante ciò, anche l’organizzazione guidata da Giorgio Squinzi non può evitare di darsi una regolata.

Con 500 milioni di euro di costi l’anno, tra super stipendi e sedi di rappresentanza di dubbia utilità, è pronto e sarà presentato questa settimana il piano redatto da Carlo Pesenti, incaricato di presiedere la commissione nominata allo scopo di individuare e rimodulare la spesa in eccesso.
Così, anche gli industriali spesso criticati da sindacati e politici, si ritrovano ora a dover compiere quelle scelte che, dal momento in cui ha assunto la presidenza, Squinzi non ha mancato mai di chiedere ai governanti di turno. Riduzione dei costi di gestione, abolizione delle province e delle sedi in eccesso, tetto agli stipendi e alle liquidazioni; insomma, la spending review di cui tutti parlano ma che nessuno attua.
In effetti, neanche Confindustria sembra rappresentare un’eccezione in questo senso, essendo aumentato il costo del personale di circa il 10% nel solo 2012. Una scelta figlia di una politica leggermente in controtendenza.
Nata nel 1910, l’organizzazione con sede nazionale in Viale dell’Astronomia a Roma conta un centinaio di sedi territoriali e una ventina settoriali, con identici incarichi ma bilanci separati. Questo, come si può immaginare, ha prodotto non poche difficoltà di gestione.
Negli anni, inoltre, è cresciuta comportandosi spesso come un vero e proprio gruppo imprenditoriale, e non una semplice organizzazione di categoria. I due investimenti più importanti e di maggior rilievo sono stati la creazione dell’Università LUISS Guido Carli di Roma e il quotidiano economico Il Sole 24 Ore; due eccellenze nei rispettivi settori, bisogna ammetterlo.
In un periodo di crisi economica come quello in cui si trovano a operare le imprese italiane, pagare gli oneri associativi è un peso eccessivo da sostenere, e questo ha spinto molti imprenditori a scegliere altre organizzazioni più “economiche”, come Confcommercio e Confartigianato.
L’esempio più famoso, e che ha destato maggiore stupore è stato, senza dubbio, l’uscita del Gruppo Fiat nel 2011.
Il piano di riduzione dei costi dovrà passare, necessariamente, dall’accorpamento delle sedi territoriali, in linea d’altronde con quello che chiedono gli stessi industriali allo Stato. Un capitolo a parte è rappresentato dalla Sede Nazionale, che da sola costa quasi 40 milioni di Euro l’anno.

Quindi, meno costi di rappresentanza, riduzione del personale, austerità nell’organizzazione dei convegni sul territorio.

Infondo, per essere credibili nei confronti dello Stato, del quale si chiede giustamente una revisione, bisogna pur dare il buon esempio.
Come disse lo stesso presidente Squinzi durante un convegno un paio di mesi fa:
[quote]“Non siamo una casta, potere forte o debole che sia, salotto più o meno buono. Noi siamo la casa del capitalismo reale: quello produttivo e dell’innovazione[/quote]

Che piangano pure i “ricchi”, allora, se questo può essere da stimolo al Paese.


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