Nuovo album per i Pearl Jam. Ecco Lightning Bolt

[highlight]La band di Eddie Vedder torna a far parlare di se con il nuovo album[/highlight]


Esce il nuovo album dei Pearl Jam, ma andiamo con ordine. A metà ottobre del 1993 veniva distribuito il secondo disco dei Pearl Jam, Vs: fin dal titolo era assolutamente palese il sentimento che animava il gruppo, gli intenti che avrebbero perseguito, le tematiche che avrebbero affrontato nei testi.
Five against one” era più che un ritornello uscito dalla penna di Vedder: era un urlo rabbioso sostenuto dai graffi di Stone Gossard alla chitarra, era il martellare di Ament e Abruzzese, era la schizofrenia della chitarra di McCready, ma soprattutto era il sentire di un’intera generazione arroccatasi dietro le spalle dei portavoce della generazione del grunge.
Quella stessa generazione a distanza di vent’anni (e con vent’anni in più di bocconi amari e delusioni) s’è ritrovata a chiedersi ancora una volta se avrebbe provato le medesime emozioni nell’ascoltare il nuovo disco, se la loro (più che legittima e persistente) rabbia potesse ancora trovare conforto nelle liriche di Vedder e nelle scelte musicali del gruppo: ebbene, se l’inizio tirato (“Getaway”, “Mind your manners”, “My father’s son”) di Lightning Bolt (Monkeywrench, 2013) sembra confermare questa speranza, visto che non solo da un punto di vista formale, ma anche e soprattutto da un punto di vista di scelta di suoni e atmosfere sembra connettersi al precedente Backspacer (Monkeywrench, 2009), dal quarto pezzo in scaletta (“Sirens”), invece, la musica cambia.
Riff micidiali si alternano a spumeggianti e frizzanti chitarre che sembrano venire direttamente dagli anni ’70 (“Lightning bolt”, “Let the records play”), a echi lontani di una maniera debitrice nei confronti di certi U2 (“Swallowed whole”), a sprazzi country/folk (la riarrangiata “Sleeping by myself”, dal disco solista di Eddie Vedder Ukulele Songs, uscito per Monkeywrench, 2011), fino ad approdare al sicuro con ballate nel più classico stile di Vedder e soci (“Sirens”, “Yellow moon”, “Future Days”).
I Pearl Jam non hanno, ancora una volta, fatto rimpiangere l’attesa e le speranze dei fan più fedeli, confezionando un ottimo disco di sano, divertente, diretto e grintoso rock che dal vivo godrà sicuramente di un impatto più sanguigno, e la produzione del fido Brendan O’Brien (qui anche al piano) impreziosisce l’ottimo lavoro in studio di un gruppo che ormai sa quel che vuole e soprattutto come ottenerlo:  non una nota in più, non una in meno, e tutto il tempo necessario per realizzarlo (il disco ha portato via circa due anni).
Per la prima volta risulta difficile distinguere le parti suonate da Stone Gossard rispetto a quelle suonate da Mike McCready, così come è da sottolineare il lavoro di Matt Cameron e Jeff Ament, in perfetta simbiosi e capaci di supportare come mai prima il lavoro delle chitarre.
C’è però un unico grande, contrastante appunto: pur essendo un lavoro di gruppo, si fa fatica a non considerare Lightning Bolt quasi come il terzo lavoro solista di Eddie Vedder.
Indubbio è il fatto che la sua voce, la sua capacità di interpretare, la sua presenza e autorità in fase compositiva, e la sicurezza con cui i componenti del gruppo lo seguono siano sotto gli occhi (e nelle orecchie) di chiunque si approcci a questo lavoro. Ed è palese che dia una marcia in più anche a qualcosa di forse meno riuscito (“Swallowed whole”).
Non è detto che sia necessariamente un male, ma la speranza è che questa band, questo miracolo di longevità e capacità di reinventarsi pur restando sempre fedeli a sé stessi non diventi in futuro “Eddie Vedder & The Pearl Jam”: perché  se già “E’ una cosa troppo fragile, questa vita che ci portiamo appresso / tanto che se penso troppo non riesco a superare la grazia con cui viviamo le nostre vite, con la morte sulle spalle” (“Sirens”), essa può risultare insopportabile a chi ama la musica, se non si può neanche più pensare con ansia al prossimo disco dei Pearl Jam.

 


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