La disoccupazione è figlia del declino culturale

[highlight]Urge una cultura diversa per evitare che la piaga della disoccupazione peggiore ancora[/highlight]

Lo scorso 16 ottobre, a Milano, organizzato da Deloitte, una delle più grandi imprese nei servizi professionali alle aziende, si è tenuto un interessante convegno dal titolo: “Le sfide per al crescita: innovazione, imprenditorialità e occupazione”.

L’obiettivo della giornata era quello di individuare le modalità più opportune per creare occupazione in una società ( non come l’Italia, purtroppo) altamente tecnologica. Ovvero come far nascere e prosperare il lavoro nella new economy. Questa, secondo alcuni esperti, è considerata poco produttiva di manodopera e, di conseguenza, non permette grosse opportunità occupazionali. Questo assunto, anche se fosse scientificamente provato (e non lo è), non comporta necessariamente delle alternative alla new economy. Infatti, se si resta legati ad un modo vecchio di concepire il lavoro si rischia una sorta di default occupazionale.

E’ vero che il processo di innovazione tecnologica inizialmente comporta un visibile abbassamento dei livelli occupazionali perché le aziende, che sono tecnologicamente avanzate, generano una domanda di lavoro più bassa, ma è anche vero che senza l’innovazione ci sarebbero meno esperienze positive come, ad esempio, Silicon Valley, Singapore o Texas. Secondo l’analisi compiuta da Deloitte, il processo di innovazione tecnologica produce «un indotto di domanda per servizi tradizionali, e per un posto di lavoro creato in centri di eccellenza innovative ne nascono cinque in altri settori».
Il nostro Paese è tra i 18 Paesi europei dove il problema della disoccupazione è più serio, e questo avviene, soprattutto, perché siamo rimasti indietro sotto il profilo dell’innovazione, comportando un deficit di competitività che, secondo il World Economic Forum, ci vede posizionati al 49esimo posto nel mondo.

I dati sull’occupazione analizzati dal 2007 hanno visto raddoppiati le percentuale in generale, passando, infatti, dal 6,1% al 12,3%, e quella giovanile è passata dal 20,3% al 44,2%.

Come uscire da questa situazione?

Secondo lo studio di Deloitte bisogna fare sistema e serve un’agenda che loro hanno chiamata “Io –Italia” (Innovazione Occupazione Italia). Tutti devono darsi da fare: il mondo delle imprese, le banche, il governo con tutta la classe politica, i mezzi di comunicazione, le famiglie e la comunità europea.

Insomma c’è bisogno di un comune sentire e di uno sforzo comune, con un opportuno coordinamento allo scopo di declinare al meglio strategie ed azioni necessari a creare un nuovo modello di sviluppo nell’occupazione. In questo contesto l’anello debole è rappresentato dalle famiglie e dai giovani.

Questi soggetti sono, da troppo tempo, sfiduciati e pessimisti in relazione alla grande crisi che ha colpito il nostro Paese. Infatti, l’87% degli intervistati, attraverso un’indagine demoscopica, è seriamente preoccupato della situazione economica italiana, e dal fatto che il nostro mercato del lavoro, secondo il 77%, è peggiore rispetto a quello degli altri partner europei. Soprattutto tra i nostri compatrioti vi è una scarsa considerazione per l’istruzione e la formazione professionale. Soltanto il 20% delle famiglie intervistate considera un’adeguata qualità dell’istruzione come un requisito importante ai fini occupazionali. Infatti, nella stragrande maggioranza delle famiglie italiane l’istruzione/formazione di qualità non è prioritaria al fine di ottenere una crescita nelle opportunità di lavoro per i figli.

Questa considerazione è figlia, soprattutto, di modelli culturali datati che, in prevalenza, nel nostro Sud la fanno ancora da padrone. Il concetto del “pezzo di carta”, in alcune realtà sociali del Mezzogiorno, resiste ancora producendo danni enormi. Insomma, per dirla in breve, si crede poco nella scuola come strumento di conoscenza e foriera di opportunità di lavoro, ma solo come strumento per ottenere un titolo.

Il sociologo Domenico Masi, nel suo recente “Mappa Mundi” edito da Rizzoli, nello spiegare “i modelli di vita in una società senza orientamento”, ha messo in evidenza come la causa primaria del regresso dell’importanza dell’istruzione/formazione, che la scuola può offrire, sia dovuta al declino, lento ma costante, della classe media italiana.

Una cosa è certa: una comunicazione che trasmette e sollecita modelli di comportamenti diversi da quelli propinati negli ultimi 30 anni può essere determinante nel far crescere, nelle famiglie e nei giovani, la consapevolezza che affrontare sacrifici, per garantire una formazione di qualità e in linea con le esigenze del mercato del lavoro, sia improcrastinabile.

Che una classe dirigente sapiente e rispettosa del Paese che governa deve delineare, finalmente, una scuola migliore: migliorando la qualità dei docenti, e alternando giorni di aula a giorni di presenza in aziende, con programmi alla cui base vi deve essere un’adeguata e necessaria dose di innovazione tecnologica. E, soprattutto, per rafforzare il concetto deve ripristinare, come valore imprescindibile di certificata qualità, la meritocrazia figlia della necessaria conoscenza di qualità.

Solo così si potrà offrire ai giovani il giusto stimolo a sacrificarsi per mettersi in gioco opportunamente nel mercato del lavoro.

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