Made in Italy in saldo: ma siamo sicuri sia un male?

[highlight]Tante le aziende italiane cedute agli stranieri negli ultimi anni: il made in Italy rischia di scomparire?[/highlight]

Italia in svendita? Pare proprio di sì, a giudicare dal cospicuo numero di aziende italiane passate di recente nelle mani di privati stranieri. A proposito di sviluppo, infatti, l’Italia naviga in cattive acque, come sottolinea l’allarme lanciato dalla UE a Bruxelles, alla luce della vicenda Telecom, secondo il quale il nostro Paese sta vivendo una vera e propria deindustrializzazione.

L’indice della produzione ha perso 20 punti percentuali dal 2007 ed è, dunque,  lecito chiedersi se vendere faccia bene o uccida il Paese. Di sicuro, si può parlare di una vera e propria “invasione di stranieri” che colpisce maggiormente le aziende alimentari e di moda.

Tra gli storici colossi agroalimentari venduti negli ultimi anni figurano la Pernigotti, acquistata dalla famiglia turca Tuskoz nel luglio 2013, ma anche la San Pellegrino e la Buitoni, cedute alla svizzera Nestlè  nel 1988. Seguono la Parmalat, controllata dalla francese Lactalis dal 2011, e ancora la Peroni, divenuta uno dei marchi dell’azienda sudafricana SABmiller nel 2003. Si aggiungono a queste la Star e la salumi Fiorucci, passate sotto il controllo spagnolo rispettivamente nel 2006 e nel 2011; per finire la carrellata, la Gancia che la famiglia di Asti ha venduto al magnate russo Tariko nel 2011 e milioni di ettari adibiti alla produzione del famoso vino rosso italiano Chianti di Milano ormai di proprietà di un imprenditore cinese. Le cose non vanno meglio per i prestigiosi marchi di lusso italiani: mentre BulgariGucci, Fendi e Bottega Veneta parlano francese, Valentino e Missoni passano sotto il controllo arabo.  Stando a ciò che si vocifera, in un futuro non lontano potrebbe essere la volta dell’Alitalia, in preda ad una crisi finanziaria che fa presupporre, come unica soluzione, il passaggio all’Air France.

Questo fenomeno dell’Italia in saldo, dalla maggior parte considerato nocivo per il Paese, potrebbe, invece, celare un aspetto positivo: la fine del capitalismo di “bandiera”, caratterizzato dalla commistione di interessi privati spacciati per pubblici e di interessi pubblici utilizzati per  favorire amici privati. Evitando di fermarsi alle apparenze, che indurrebbero ad individuare nella perdita della “italianità” l’unica vera preoccupazione, ci si può accorgere che il reale interesse nazionale è che i servizi di pubblica utilità privatizzati siano separati dagli interessi dei produttori.

Facile nascondersi dietro la salvaguardia del made in Italy, come in passato Prodi e Berlusconi hanno fatto proprio con l’Alitalia, tentando a tutti i costi di tenere in piedi aziende, sormontate di debiti, che hanno continuamente bisogno di aiuti di ogni tipo e che gravano su famiglie e piccole imprese. Nel caso della compagnia aerea, ad esempio, sarebbe stato vantaggioso rinunciare all’esclusività di alcune tratte, finalizzata al vano tentativo di risanamento, e favorire, piuttosto, la circolazione negli aeroporti italiani delle più grandi compagnie aeree mondiali in concorrenza tra loro, per poter scegliere la migliore e al prezzo più conveniente. Questo sì che avrebbe portato traffico di beni e viaggiatori nel nostro Paese e avrebbe paradossalmente tutelato davvero l’interesse nazionale, rilanciando il turismo e il servizio aereo. L’italianità non consiste necessariamente nell’ostentare il tricolore sulla coda dell’aereo, né nel pronunciare la sigla Telecom Italia, ma nel coraggio di lasciar fallire e chiudere infrastrutture che danneggiano l’economia nazionale.

E che si tranquillizzino coloro intimoriti dalla possibile scomparsa del made in Italy; quest’ultimo risiede nella cultura, nelle opere d’arte, nelle bellezze naturali. In Italia il plusvalore è soprattutto spirito, non materia … e nessuno potrà mai comprarlo.

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