In America ci sono più prigioni che College

[highlight]Un paradosso, soprattutto se si pensa che il Paese è il simbolo del “Mondo libero”[/highlight]

Carcerazione di massa e accesso limitato all’istruzione universitaria: si tratta di due problemi della società statunitense apparentemente caratterizzati da un’irriducibile eterogeneità ma che, a ben vedere, risultano due facce di una stessa medaglia, che porta il nome di politica neoliberale americana.

Dall’analisi di entrambi i fenomeni è possibile trarre la logica di fondo che li attraversa, una logica in grado di ledere l’immagine degli Stati Uniti come il Paese della libertà.

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La patria del carcere

Le statistiche parlano chiaro: nella popolazione statunitense, che corrisponde al 5% di quella mondiale, è presente il 25% della popolazione carceraria mondiale. È un dato che non fa onore agli Stati Uniti, soprattutto alla luce del fatto che nelle prigioni americane sono detenute mezzo milione di persone in più rispetto alla Cina, che, però, ha una popolazione di cinque volte superiore.

A destare stupore è, inoltre, la crescita vertiginosa della popolazione carceraria avvenuta a partire dagli anni settanta, quando era pari a 300,000 detenuti, per poi passare al milione degli anni novanta e, infine, ai 2,4 milioni di oggi. Con i loro 707 adulti prigionieri ogni 100,000 abitanti, gli Stati Uniti si guadagnano un primato di cui non possono certo andare fieri, quello del tasso di carcerazione più alto del mondo.

Per avere un’idea dell’ingombrante presenza di carceri in America, è opportuno evidenziare che il sistema penitenziario statunitense si articola su diversi livelli di controllo e gestione delle carceri. Su questa base è possibile fare il punto della situazione contando 1719 prigioni che fanno capo allo stato centrale, 102 prigioni federali e 3283 prigioni municipali.

Tra le cause dell’eccessivo numero di prigioni e, dunque, di prigionieri è necessario annoverarne due, in particolare: l’una di carattere giuridico, l’altra, ben più incisiva e tenuta maggiormente sottobanco, di carattere inaspettatamente economico.

La prima ha a che fare con il diritto penale statunitense che prevede la punizione con il carcere anche per molti crimini non violenti. Questo spiegherebbe l’enorme afflusso nelle prigioni di condannati per l’uso di droga o per la compilazione di assegni a vuoto, reati, questi, che in altri Paesi raramente producono pene detentive di una durata, tra l’altro, piuttosto lunga. Inoltre, nel binomio delitto e castigo e, quindi, nel passaggio dal crimine all’applicazione della pena da infliggere per quel crimine, intervengono una serie di fattori, in un sistema amministrativo carcerario come quello statunitense. Se è vero che la legge è uguale per tutti, è pur vero che i giudici possono interpretarla con maggiore o minore severità, tenendo conto di norme e tradizioni locali, quando si tratta di decidere sul trattamento dei colpevoli nelle carceri municipali.

Il complesso industriale carcerario

La seconda causa dell’aumento delle carceri negli Usa coincide con il processo di privatizzazione delle carceri, avviato negli Stati Uniti nei primi anni ottanta dall’allora presidente Ronald Reagan e incoraggiato ulteriormente dall’amministrazione Clinton. La progressiva soppressione del pubblico in favore del privato costituisce la tendenza di base della politica americana, tanto da non risparmiare nemmeno il sistema della giustizia penale, in cui non è più lo stato a fungere da organo di controllo del crimine e della punizione, con tutte le implicazioni negative che questo comporta.

Prima fra tutte l’applicazione della legge del business al carcere, la gestione delle carceri secondo le regole del mercato e, dunque, la perdita di vista di ciò per cui in realtà il carcere esiste. La finalità primaria della detenzione non è più la riabilitazione del condannato ma la trasformazione del carcerato in soggetto economicamente conveniente, capace di produrre un reddito che andrà ad arricchire le società private che gestiscono questo tipo di mercato. Si tratta di costruire il sistema carcerario sul modello dell’impresa e il risultato è il consolidamento di un vero e proprio “complesso industriale carcerario” che ospita più di 100,000 detenuti e che è controllato da società private come, in misura maggiore, la Corrections Corporation of America (CCA).

L’applicazione di una logica di mercato a un sistema carcerario propenso ad anteporre i profitti alle persone, è una mossa strategica dei grandi capitalisti consapevoli dei minori costi e, dunque, dei più alti profitti che si possono ricavare dall’industria carceraria rispetto a qualsiasi altro tipo di industria.  Basta pensare che nel 2010 la CCA ha guadagnato tre miliardi di dollari di profitti dalle 60 prigioni che possiede per dedurne quanto convenga alle lobby l’aumento della popolazione carceraria.  L’incarcerazione di massa, infatti, produce profitti grazie alla possibilità di sfruttare molta manodopera a bassissimo costo (un prigioniero guadagna tra i 93 centesimi e i 4 dollari al giorno) e grazie all’assenza di spese per  coperture assicurative che non sono previste per i detenuti.

Tra le aziende che si avvalgono di tali benefici c’è la Levi’s, i cui jeans sono confezionati in carcere, o la TWA, i cui biglietti aerei vengono distribuiti e venduti da una prigione californiana. L’effetto di tutto ciò è la commercializzazione del lavoro dei detenuti nonchè il loro sfruttamento.

Decade anche quanto era stato promesso negli anni ottanta, ovvero la privatizzazione come garanzia di maggiore efficienza, in quanto, proprio perché viene anteposto il guadagno alla persona, l’imprenditore privato può liberamente permettersi di assumere personale non qualificato, di fornire cibo scadente e di non preoccuparsi di inserire programmi di riabilitazione, in alcuni casi del tutto inesistenti.

Il College costa troppo

Se gli stati americani pullulano di strutture carcerarie non si può dire lo stesso dei College, corrispondenti alle nostre università. La popolazione carceraria supera quella universitaria e la causa di ciò e facilmente riconducibile al costo troppo elevato dei College americani, pari a circa 20,000 dollari l’anno e a 60,000 dollari per le più prestigiose.  Inoltre, negli ultimi tre decenni le tasse universitarie sono aumentate di oltre il 250%, mentre i redditi di una famiglia solo del 16% in media. L’istruzione rischia di diventare un lusso riservato a pochi, e, anche in questo caso, si constata un’organizzazione in termini economici del settore dell’istruzione americana.

Lo stesso Obama ha, in più circostanze, ribadito che l’università è l’investimento più importante che gli studenti possono fare per il loro futuro, e fin quando la parola chiave sarà investimento, non si potranno avere dubbi sulla necessità di sganciare una cospicua somma di denaro da investire per poter accedere a ciò che consentirà di ricevere in cambio un lavoro futuro più redditizio.

Più ingente sarà il capitale investito, più si potrà aspirare a un ruolo importante nella società; più paghi più sarai qualcuno. Il problema è che quel capitale iniziale resta imprescindibile e deve essere attinto dalle risorse individuali, e non collettive, che ciascuna famiglia ha accumulato faticosamente nel corso degli anni, così come previsto dal modello di società fondata su una molteplicità di piccole imprese-famiglia autonome e che rappresenta il tessuto sociale proprio dell’impostazione neo-liberale. Quando non ce lo si può permettere, semplicemente non si può accedere all’istruzione universitaria. Gli aiuti sociali sono davvero pochi e dotati di un margine minimo di copertura. Ancora una volta il tutto è il frutto di un sistema fondato sulla privatizzazione.

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Le soluzioni

Il punto di convergenza delle due problematiche sembra suggerire anche la loro soluzione: combattere una privatizzazione portatrice di intrinseche deficienze sui due fronti, carceri e istruzione, potrebbe essere il punto di partenza per una riduzione nel numero di carcerati, da una parte, e una maggiore affluenza degli studenti nei College, dall’altra.

Sul fronte dell’istruzione Obama si sta già muovendo in questa direzione, come dimostra l’annuncio dell’introduzione di Community College, ossia strutture pubbliche di istruzione universitaria accessibili a molti, in quanto il costo del percorso di due anni é pari a 1/5 di quello richiesto in media per gli altri College.

Per il sistema carcerario, invece, sarebbe opportuno riflettere sulla possibilità di conferire nuovamente alla riabilitazione il ruolo che le spetta, evitando di incrementare il tasso di carcerazioni solo per trarne vantaggi economici destinati a pochi imprenditori. Inoltre, è statisticamente dimostrato che la detenzione non agisce come deterrente dell’azione criminosa, quindi non funziona; la violenza esce, anzi, incrementata dalle carceri, al punto che si è spesso indotti a delinquere nuovamente.

Realizzare il passaggio da una giustizia retributiva (in cui chi ha sbagliato paga), che non riabilita, a una giustizia ripartiva, in cui ci si impegna a rispondere della propria azione in cambio di quella nozione “scandalosa” di perdono, potrebbe essere la formula giusta.

Intanto, ecco smascherate alcune contraddizioni di fondo di un Paese che vuole a tutti i costi farsi garante della libertà.

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