Nucleare Italia: il punto a due anni dal referendum

[highlight]Il 12 e 13 giugno 2011 il 95% dei votanti sancì la fine del nucleare in Italia. Da allora il tema sembra scomparso dal pubblico dibattito, ma resta il dello smantellamento delle vecchie Centrali[/highlight]


Sono passati più di due anni ormai dal referendum abrogativo che ha segnato la fine del nucleare in Italia (e che comprendeva, oltre al quesito sul nucleare, anche la privatizzazione dell’acqua e legittimo impedimento), ma il tema resta comunque tra i più dibattuti.

Infatti, anche se le centrali nucleari italiane sono inattive da anni e l’ipotesi di una strategia energetica nazionale che preveda la loro messa in funzione è stata accantonata dopo l’esito delle votazioni, restano comunque le tracce del passato nucleare intrapreso dal Belpaese negli ultimi decenni del Novecento.

La Sogin, società alla quale il governo ha affidato il compito dello smantellamento, ha iniziato nel febbraio scorso i lavori alla struttura di Caorso: il progetto prevede l’adattamento di uno degli edifici ad area di stoccaggio provvisoria dei rifiuti radioattivi, ma il termine entro il quale la riconversione sarà ultimata non è tuttora sicuro.

Ma quando è partita l’avventura italiana della produzione di energia elettrica tramite fissione nucleare?

Tutto inizia nel lontano 1959, anno in cui è stato costruito il primo reattore di ricerca ad Ispra (Varese); poi ingenti finanziamenti, motivati da un’opinione pubblica favorevole all’iniziativa economico-energetica, hanno fatto sì che la produzione di energia nucleare in Italia venisse implementata fino a raggiungere nel 1966 un massimo di 3,9 kWh, con la costruzione di altre centrali a Trino Vercellese, Latina, Garigliano, Sessa Aurunca e nel 1980 quella di Caorso.

È solo dopo gli anni ’80 che ha iniziato a diffondersi un atteggiamento critico nei confronti del nucleare rispetto ai rischi di tipo ambientale e non.

Che siano stati determinati da un errore umano o da una violazione delle misure di sicurezza, due incidenti hanno dato una svolta alla storia nucleare italiana, cambiando l’opinione pubblica e sollecitando un dibattito fino ad allora sopito: si tratta dell’incidente alla centrale nucleare americana di Three Miles Island del ’79 e, soprattutto, dell’esplosione di un reattore della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986.

L’anno successivo si sono svolti infatti 3 referendum sul nucleare, che hanno decretato l’abrogazione di alcune norme, sancendo l’abbandono da parte dell’Italia ad utilizzare questa risorsa energetica.

Oltre ai danni provocati da incidenti nei reattori nucleari, ad animare il dibattito “pro vs contro” nucleare sono state anche le considerazioni fatte sulle scorie radioattive, rifiuti speciali che necessitano d’essere lavorati e stoccati in depositi per migliaia di anni, per i quali non esistono ancora, a tutt’oggi, modalità di smaltimento adeguate e sicure. Tra questi residui è da segnalare la presenza di Plutonio, elemento radioattivo spesso usato per la produzione di armi nucleari.

Attraverso i due referendum, l’Italia ha sancito la propria rinuncia alla produzione di energia elettrica attraverso la fissione nucleare che, tra l’altro, comporta la dipendenza dall’Uranio, una risorsa non rinnovabile e reperibile solo in alcuni Paesi, a tutto vantaggio esclusivo delle nazioni più avanzate e industrializzate, che possono permettersi questi costi.

Anche se un ritorno al passato sembra molto improbabile, in Italia continua il dibattito tra sostenitori – convinti dei vantaggi economici derivanti dalla produzione di energia con le centrali nucleari – e oppositori, che sottolineano i problemi relativi allo stoccaggio del materiale fissile e spingono verso un maggior ricorso alle energie rinnovabili.

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